XXXII.
Il 13 agosto ci risvegliammo di buon mattino. Si trattava d’inaugurare un nuovo genere di locomozione rapida e poco faticosa. Un albero fatto di due bastoni lapazzati, un’antenna formata d’un terzo bastone, e le nostre coperte ad uso di vela componevano gli attrezzi della zattera. Non mancavano le corde, ed il tutto era solido.
Alle sei il professore diede il segnale dell’imbarcazione. I viveri, i bagagli, gl’istrumenti, le armi ed una gran quantità di acqua dolce erano a posto. Hans aveva preparato un timone che gli permetteva di dirigere il suo apparecchio galleggiante. Si mise alla barra; io staccai l’ormeggio che ci tratteneva alla spiaggia, mettemmo le vele al vento e ci scostammo dalla riva.
Nel momento di lasciare il piccolo porto, mio zio, che aveva cara la sua nomenclatura geografica, volle dargli un nome, il mio fra gli altri.
«In fede mia, dissi, ne ho un altro a proporvi.
— Quale?
— Il nome di Graüben. Porto Graüben, starà assai bene sulla carta.
— Accettato Porto Graüben.»
Ed ecco in qual guisa il ricordo della mia cara Virlandese si collegò alla nostra avventurosa spedizione.
La brezza soffiava da nord-est; noi filavamo col vento in poppa, rapidissimamente. Gli strati densissimi dell’atmosfera aveano una spinta enorme ed agivano sulle vela come un potente ventilatore.
Dopo un’ora mio zio aveva potuto valutare abbastanza esattamente la nostra velocità.
«Se continuiamo a camminare così, disse, faremo almeno trenta leghe ogni ventiquattr’ore e non tarderemo a riconoscere la riva opposta.»
Non risposi ed andai a collocarmi a prora della zattera. Già la costa settentrionale si abbassava all’orizzonte; le due braccia della riva si aprivano largamente come per renderci facile la partenza. Un immenso mare si stendeva innanzi ai miei occhi. Nuvoloni enormi passavano rapidamente gettando sulla sua superficie la loro ombra grigiastra che pareva pesare sopra quell’acqua scolorita.
I raggi argentati della luce elettrica riflessi qua e colà da qualche gocciolina facevano sbocciare punti luminosi nei risucchii dell’imbarcazione.
Ben presto perdemmo di vista la terra, ogni punto di segnale disparve, e senza il solco schiumoso della zattera avrei potuto credere ch’essa se ne rimanesse perfettamente immobile.
Verso il mezzodì immense alghe vennero ad ondulare alla superficie dei flutti. M’era nota la forza vegetativa di queste piante che si arrampicano da una profondità di dodicimila piedi in fondo ai mari, e si riproducono a una pressione di quattrocento atmosfere e formano soventi volte banchi così considerevoli da serrare il passo alle navi; ma non mai, io credo, vi furono alghe più gigantesche di quelle del mare Lidenbrock.
La nostra zattera rasentò fuchi lunghi tre o quattromila piedi, immensi serpenti che svolgevano le loro spire a perdita di vista. Io mi dilettava a seguire collo sguardo i loro nastri interminabili, credendo sempre di raggiungerne l’estremità, e per intere ore la mia pazienza era delusa, ma non la mia meraviglia.
Qual forza naturale poteva produrre tali piante e quale doveva essere l’aspetto della terra nei primi secoli della sua formazione, quando, sotto l’azione del calore e della umidità, il solo regno vegetale si sviluppò alla sua superficie!
Giunse la sera, e come avevo notato la vigilia, lo stato luminoso dell’aria non scemò punto; era un fenomeno costante e potevamo contare sulla sua durata.
Dopo la cena mi stesi a piedi dell’albero e non tardai ad addormentarmi in mezzo ad indolenti fantasticherie.
Hans immobile al timone lasciava correre la zattera, che d’altra parte spinta dal vento in poppa non aveva bisogno d’essere diretta. Fino dalla partenza dal porto Graüben, il professore mi aveva incaricato di tenere il giornale di bordo, di notare le più piccole osservazioni, i fenomeni interessanti, la direzione del vento, la velocità acquistata, la via percorsa, tutti gl’incidenti insomma della bizzarra navigazione. Mi limiterò dunque a riprodurre qui quelle note quotidiane scritte per così dire sotto la dettatura degli avvenimenti, per dare un racconto esatto della nostra traversata.
Venerdì, 14 agosto. — Vento eguale di nord-ovest, la zattera cammina rapidamente in linea retta, la costa rimane a trenta leghe sottovento; nulla all’orizzonte; l’intensità della luce non varia. Bel tempo, vale a dire che le nuvole sono elevatissime, poco dense e si bagnano in un’atmosfera biancastra che pare d’argento fuso.
Termometro: + 32° centigradi.
Al mezzodì Hans prepara un amo all’estremità d’una corda, lo adesca con un pezzetto di carne e lo getta in mare. Durante due ore non prende nulla; queste acque sono dunque disabitate? no; una scossa avverte Hans il quale tira la lenza a cui è attaccato un pesce che si dibatte vigorosamente.
«Un pesce! esclama mio zio.
— Uno storione! esclamo alla mia volta; un piccolo storione!»
Il professore guarda attentamente l’animale e non è della mia opinione; quel pesce ha la testa schiacciata, arrotondata e la parte anteriore del corpo coperta di scaglie e d’ossa; la sua bocca è priva di denti; ha pinne pettorali molto sviluppate ed è sprovvisto di coda.
Certo quell’animale appartiene a un ordine in cui i naturalisti hanno classificato lo storione, ma ne differisce essenzialmente per più rispetti.
Mio zio non s’inganna poichè, dopo un breve esame, dice: «Questo pesce appartiene a una famiglia estinta da secoli e di cui si ritrovano solo le traccie fossili nei terreni devoniani.
— Come? dico io; noi abbiamo potuto prender vivo un abitante dei mari primitivi?
— Sì, risponde il professore continuando le sue osservazioni, e tu vedi che questi pesci fossili non hanno alcuna identità colle specie d’oggidì. Ora aver nelle mani vivo uno di tali esseri è una vera fortuna per un naturalista.
— Ma a qual famiglia appartiene?
— All’ordine dei ganoidi, famiglia dei cefalaspidi, genere…
— Ebbene?
— Genere dei pterychtis, lo giurerei! ma questo ha una particolarità che, per quanto si dice, s’incontra nei pesci delle acque sotterranee.
— Quale?
— È cieco.
— Cieco!
— Non solo cieco, ma l’organo della vista gli manca affatto.»
Guardo; la cosa è verissima. Ma può forse essere un caso speciale. La lenza adunque nuovamente adescata, è rigettata in mare. Senza dubbio quell’oceano è ricco di pesci, perchè in due ore noi prendiamo gran quantità di pterychtis, oltre a molti pesci appartenenti ad una famiglia spenta del pari, i dipteridi; di cui però mio zio non seppe riconoscere il genere. Tutti sono privi dell’organo della vista. La pesca insperata rinnova molto opportunamente le nostre vettovaglie.
La cosa pare dunque accertata; questo mare non contiene se non specie fossili, nelle quali i pesci, come i rettili, sono tanto più perfetti, quanto più antica è la loro creazione.
Forse incontreremo taluno di quei sauriani che la scienza ha saputo ricostruire con un frammento d’ossa o di cartilagine? Prendo il cannocchiale ed esamino il mare: è deserto. Certamente siamo ancora troppo vicini alle coste.
Guardo per aria. Perchè mai taluno di quegli uccelli ricostrutti dall’immortale Cuvier non fenderebbe colle ali i pesanti strati atmosferici? I pesci fornirebbero loro sufficiente nutrimento, Osservo nello spazio; ma l’aria è disabitata al pari delle rive.
Nondimeno la mia immaginazione mi trasporta nelle meravigliose ipotesi della paleontologia. Sogno ad occhi aperti, e mi pare di vedere alla superficie delle acque quegli enormi chersiti, quelle tartarughe antidiluviane, simili ad isole galleggianti; passano sulle spiagge rincupite i gran mammiferi delle prime età, il leptoterio, ritrovato nelle caverne del Brasile, il mericoterio, venuto dalle agghiacciate regioni della Siberia; più lungi il pachiderma lophiodono, tapiro gigantesco, si nasconde dietro le roccie, pronto a contendere la sua preda all’anoploterio, bizzarro animale che partecipa del rinoceronte, del cavallo, dell’ippopotamo e del cammello, come se il Creatore, frettoloso nelle prime ore del mondo, avesse molti animali riunito in uno solo. Il mastodonte gigantesco muove in giro la sua tromba e stritola colle zanne le roccie della spiaggia, mentre il megaterio inarcato colle enormi zampe fruga nella terra svegliando co’ suoi ruggiti l’eco di quei graniti sonori, Più su il protopiteco, la prima scimmia apparsa alla superficie del globo, si arrampica sulle ardue cime; e più su ancora, il pterodactylo dalla mano alata scivola come un grosso pipistrello sull’aria compressa; infine, negli ultimi strati, enormi uccelli, più poderosi del casoaro, più grandi dello struzzo, spiegando le loro larghe ali vanno a battere del capo contro la parete della vôlta granitica.
Tutto codesto mondo fossile rinasce nella mia immaginazione. Ritorno col pensiero alle età bibliche della creazione, assai prima della nascita dell’uomo, quando la terra incompiuta non poteva ancora bastargli. Il mio sogno anticipa allora all’apparizione degli esseri animati. Spariscono i mammiferi, poi gli uccelli, poi i rettili dell’epoca secondaria; infine i pesci, i crostacei, i molluschi e gli articolati. Gli zoofiti dal periodo di transizione alla lor volta ritornano al nulla.
Tutta la vita della terra si riassume in me; e il mio cuore è solo a battere in quel mondo spopolato. Non più stagioni, non più climi; il calore proprio della terra si accresce incessantemente e neutralizza quello del sole; la vegetazione si esagera. Io passo come un’ombra in mezzo alle felci arborescenti; calpesto con piede incerto le marne iridescenti e la creta screziata del suolo. Mi appoggio al tronco delle immense conifere e mi sdraio all’ombra dei sfenofylli, degli asterofylli, dei licopodi alti cento piedi.
Passano i secoli come fossero giorni! risalgo la serie delle terrestri trasformazioni. Le piante spariscono, le roccie granitiche perdono la loro durezza, lo stato liquido si sostituisce al solido per l’azione d’un calore più intenso; le acque scorrono alla superficie del globo, bollono, si volatilizzano. I vapori avviluppano la terra, la quale a poco a poco non forma più che una massa gassosa, riscaldata al calore bianco, grossa come il sole e splendida del paro.
Al centro di questa nebulosa, un milione e quattrocentomila volte più grande del globo ch’essa deve formare un giorno, io mi sento trascinato negli spazi planetari. Il mio corpo si assottiglia, si sublima alla sua volta e si mesce come un atomo imponderabile a quegli immensi vapori che tracciano nell’infinito la loro orbita infiammata. Qual sogno! dove mi trasporta? la mia mano febbrile ne scrive sulla carta i bizzarri particolari! io ho tutto dimenticato, professore, guida, zattera; il mio spirito è in preda a viva allucinazione….
«Che cosa hai?» mi dimanda mio zio.
I miei occhi spalancati si fissano sopra di lui senza vederlo.
«Bada, Axel, tu cadrai in mare!»
In pari tempo mi sento afferrare vigorosamente dalla mano di Hans; senza di lui, sotto il fascino del mio sogno, mi precipitavo nei flutti.
«Forse che diventa pazzo? disse il professore.
— Che cosa c’è? diss’io risensando.
— Sei tu malato?
— No, ebbi un istante di allucinazione, ma è passato. Tutto va bene?
— Sì, buon vento, bel mare. Noi veleggiamo rapidamente e, se non erro, non tarderemo a toccar terra.»
A queste parole, mi levo in piedi e guardo all’orizzonte: – ma la linea delle acque si confonde sempre con quella delle nuvole.
Edizione: Jules Verne. Viaggio al centro della Terra. Milano, Fratelli Treves Editori, 1874.
Fonte: Internet Archive
XXXII.
Wonders Of The Deep
On the 13th of August we awoke early. We were now to begin to adopt a mode of travelling both more expeditious and less fatiguing than hitherto.
A mast was made of two poles spliced together, a yard was made of a third, a blanket borrowed from our coverings made a tolerable sail. There was no want of cordage for the rigging, and everything was well and firmly made.
The provisions, the baggage, the instruments, the guns, and a good quantity of fresh water from the rocks around, all found their proper places on board; and at six the Professor gave the signal to embark. Hans had fitted up a rudder to steer his vessel. He took the tiller, and unmoored; the sail was set, and we were soon afloat. At the moment of leaving the harbour, my uncle, who was tenaciously fond of naming his new discoveries, wanted to give it a name, and proposed mine amongst others.
“But I have a better to propose,” I said: “Grauben. Let it be called Port Gräuben; it will look very well upon the map.”
“Port Gräuben let it be then.”
And so the cherished remembrance of my Virlandaise became associated with our adventurous expedition.
The wind was from the north-west. We went with it at a high rate of speed. The dense atmosphere acted with great force and impelled us swiftly on.
In an hour my uncle had been able to estimate our progress. At this rate, he said, we shall make thirty leagues in twenty-four hours, and we shall soon come in sight of the opposite shore.
I made no answer, but went and sat forward. The northern shore was already beginning to dip under the horizon. The eastern and western strands spread wide as if to bid us farewell. Before our eyes lay far and wide a vast sea; shadows of great clouds swept heavily over its silver-grey surface; the glistening bluish rays of electric light, here and there reflected by the dancing drops of spray, shot out little sheaves of light from the track we left in our rear. Soon we entirely lost sight of land; no object was left for the eye to judge by, and but for the frothy track of the raft, I might have thought we were standing still.
About twelve, immense shoals of seaweeds came in sight. I was aware of the great powers of vegetation that characterise these plants, which grow at a depth of twelve thousand feet, reproduce themselves under a pressure of four hundred atmospheres, and sometimes form barriers strong enough to impede the course of a ship. But never, I think, were such seaweeds as those which we saw floating in immense waving lines upon the sea of Liedenbrock.
Our raft skirted the whole length of the fuci, three or four thousand feet long, undulating like vast serpents beyond the reach of sight; I found some amusement in tracing these endless waves, always thinking I should come to the end of them, and for hours my patience was vying with my surprise.
What natural force could have produced such plants, and what must have been the appearance of the earth in the first ages of its formation, when, under the action of heat and moisture, the vegetable kingdom alone was developing on its surface?
Evening came, and, as on the previous day, I perceived no change in the luminous condition of the air. It was a constant condition, the permanency of which might be relied upon.
After supper I laid myself down at the foot of the mast, and fell asleep in the midst of fantastic reveries.
Hans, keeping fast by the helm, let the raft run on, which, after all, needed no steering, the wind blowing directly aft.
Since our departure from Port Gräuben, Professor Liedenbrock had entrusted the log to my care; I was to register every observation, make entries of interesting phenomena, the direction of the wind, the rate of sailing, the way we made — in a word, every particular of our singular voyage.
I shall therefore reproduce here these daily notes, written, so to speak, as the course of events directed, in order to furnish an exact narrative of our passage.
Friday, August 14
Wind steady, N.W. The raft makes rapid way in a direct line. Coast thirty leagues to leeward. Nothing in sight before us. Intensity of light the same. Weather fine; that is to say, that the clouds are flying high, are light, and bathed in a white atmosphere resembling silver in a state of fusion. Therm. 89° Fahr.
At noon Hans prepared a hook at the end of a line. He baited it with a small piece of meat and flung it into the sea. For two hours nothing was caught. Are these waters, then, bare of inhabitants? No, there’s a pull at the line. Hans draws it in and brings out a struggling fish.
“A sturgeon,” I cried; “a small sturgeon.”
The Professor eyes the creature attentively, and his opinion differs from mine.
The head of this fish was flat, but rounded in front, and the anterior part of its body was plated with bony, angular scales; it had no teeth, its pectoral fins were large, and of tail there was none. The animal belonged to the same order as the sturgeon, but differed from that fish in many essential particulars. After a short examination my uncle pronounced his opinion.
“This fish belongs to an extinct family, of which only fossil traces are found in the devonian formations.”
“What!” I cried. “Have we taken alive an inhabitant of the seas of primitive ages?”
“Yes; and you will observe that these fossil fishes have no identity with any living species. To have in one’s possession a living specimen is a happy event for a naturalist.”
“But to what family does it belong?”
“It is of the order of ganoids, of the family of the cephalaspidae; and a species of pterichthys. But this one displays a peculiarity confined to all fishes that inhabit subterranean waters. It is blind, and not only blind, but actually has no eyes at all.”
I looked: nothing could be more certain. But supposing it might be a solitary case, we baited afresh, and threw out our line. Surely this ocean is well peopled with fish, for in another couple of hours we took a large quantity of pterichthydes, as well as of others belonging to the extinct family of the dipterides, but of which my uncle could not tell the species; none had organs of sight. This unhoped-for catch recruited our stock of provisions.
Thus it is evident that this sea contains none but species known to us in their fossil state, in which fishes as well as reptiles are the less perfectly and completely organised the farther back their date of creation.
Perhaps we may yet meet with some of those saurians which science has reconstructed out of a bit of bone or cartilage. I took up the telescope and scanned the whole horizon, and found it everywhere a desert sea. We are far away removed from the shores.
I gaze upward in the air. Why should not some of the strange birds restored by the immortal Cuvier again flap their ‘sail-broad vans’ in this dense and heavy atmosphere? There are sufficient fish for their support. I survey the whole space that stretches overhead; it is as desert as the shore was.
Still my imagination carried me away amongst the wonderful speculations of palaeontology. Though awake I fell into a dream. I thought I could see floating on the surface of the waters enormous chelonia, preadamite tortoises, resembling floating islands. Over the dimly lighted strand there trod the huge mammals of the first ages of the world, the leptotherium (slender beast), found in the caverns of Brazil; the merycotherium (ruminating beast), found in the ‘drift’ of iceclad Siberia. Farther on, the pachydermatous lophiodon (crested toothed), a gigantic tapir, hides behind the rocks to dispute its prey with the anoplotherium (unarmed beast), a strange creature, which seemed a compound of horse, rhinoceros, camel, and hippopotamus. The colossal mastodon (nipple-toothed) twists and untwists his trunk, and brays and pounds with his huge tusks the fragments of rock that cover the shore; whilst the megatherium (huge beast), buttressed upon his enormous hinder paws, grubs in the soil, awaking the sonorous echoes of the granite rocks with his tremendous roarings. Higher up, the protopitheca — the first monkey that appeared on the globe — is climbing up the steep ascents. Higher yet, the pterodactyle (wing-fingered) darts in irregular zigzags to and fro in the heavy air. In the uppermost regions of the air immense birds, more powerful than the cassowary, and larger than the ostrich, spread their vast breadth of wings and strike with their heads the granite vault that bounds the sky.
All this fossil world rises to life again in my vivid imagination. I return to the scriptural periods or ages of the world, conventionally called ‘days,’ long before the appearance of man, when the unfinished world was as yet unfitted for his support. Then my dream backed even farther still into the ages before the creation of living beings. The mammals disappear, then the birds vanish, then the reptiles of the secondary period, and finally the fish, the crustaceans, molluscs, and articulated beings. Then the zoophytes of the transition period also return to nothing. I am the only living thing in the world: all life is concentrated in my beating heart alone. There are no more seasons; climates are no more; the heat of the globe continually increases and neutralises that of the sun. Vegetation becomes accelerated. I glide like a shade amongst arborescent ferns, treading with unsteady feet the coloured marls and the particoloured clays; I lean for support against the trunks of immense conifers; I lie in the shade of sphenophylla (wedge-leaved), asterophylla (star-leaved), and lycopods, a hundred feet high.
Ages seem no more than days! I am passed, against my will, in retrograde order, through the long series of terrestrial changes. Plants disappear; granite rocks soften; intense heat converts solid bodies into thick fluids; the waters again cover the face of the earth; they boil, they rise in whirling eddies of steam; white and ghastly mists wrap round the shifting forms of the earth, which by imperceptible degrees dissolves into a gaseous mass, glowing fiery red and white, as large and as shining as the sun.
And I myself am floating with wild caprice in the midst of this nebulous mass of fourteen hundred thousand times the volume of the earth into which it will one day be condensed, and carried forward amongst the planetary bodies. My body is no longer firm and terrestrial; it is resolved into its constituent atoms, subtilised, volatilised. Sublimed into imponderable vapour, I mingle and am lost in the endless foods of those vast globular volumes of vaporous mists, which roll upon their flaming orbits through infinite space.
But is it not a dream? Whither is it carrying me? My feverish hand has vainly attempted to describe upon paper its strange and wonderful details. I have forgotten everything that surrounds me. The Professor, the guide, the raft — are all gone out of my ken. An illusion has laid hold upon me.
“What is the matter?” my uncle breaks in.
My staring eyes are fixed vacantly upon him.
“Take care, Axel, or you will fall overboard.”
At that moment I felt the sinewy hand of Hans seizing me vigorously. But for him, carried away by my dream, I should have thrown myself into the sea.
“Is he mad?” cried the Professor.
“What is it all about?” at last I cried, returning to myself.
“Do you feel ill?” my uncle asked.
“No; but I have had a strange hallucination; it is over now. Is all going on right?”
“Yes, it is a fair wind and a fine sea; we are sailing rapidly along, and if I am not out in my reckoning, we shall soon land.”
At these words I rose and gazed round upon the horizon, still everywhere bounded by clouds alone.
Journey to the Center of the Earth (1877) by Jules Verne, translated by Frederick Amadeus Malleson
Chapitre 32
Le 13 août, on se réveilla de bon matin. Il s’agissait d’inaugurer un nouveau genre de locomotion rapide et peu fatigant.
Un mât fait de deux bâtons jumelés, une vergue formée d’un troisième, une voile empruntée à nos couvertures, composaient le gréement du radeau. Les cordes ne manquaient pas. Le tout était solide.
À six heures, le professeur donna le signal d’embarquer. Les vivres, les bagages, les instruments, les armes et une notable quantité d’eau douce se trouvaient en place.
Hans avait installé un gouvernail qui lui permettait de diriger son appareil flottant. Il se mit à la barre. Je détachai l’amarre qui nous retenait au rivage. La voile fut orientée, et nous débordâmes rapidement.
Au moment de quitter le petit port, mon oncle, qui tenait à sa nomenclature géographique, voulut lui donner un nom, le mien, entre autres.
« Ma foi, dis-je, j’en ai un autre à vous proposer.
— Lequel ?
— Le nom de Graüben. Port-Graüben, cela fera très bien sur la carte.
— Va pour Port-Graüben. »
Et voilà comment le souvenir de ma chère Virlandaise se rattacha à notre aventureuse expédition.
La brise soufflait du nord-est. Nous filions vent arrière avec une extrême rapidité. Les couches très-denses de l’atmosphère avaient une poussée considérable et agissaient sur la voile comme un puissant ventilateur.
Au bout d’une heure, mon oncle avait pu estimer assez exactement notre vitesse.
« Si nous continuons à marcher ainsi, dit-il, nous ferons au moins trente lieues par vingt-quatre heures, et nous ne tarderons pas à reconnaître les rivages opposés.
Je ne répondis pas, et j’allai prendre place à l’avant du radeau. Déjà la côte septentrionale s’abaissait à l’horizon. Les deux bras du rivage s’ouvraient largement comme pour faciliter notre départ. Devant mes yeux s’étendait une mer immense. De grands nuages promenaient rapidement à sa surface leur ombre grisâtre, qui semblait peser sur cette eau morne. Les rayons argentés de la lumière électrique, réfléchis çà et là par quelque gouttelette, faisaient éclore des points lumineux dans les remous de l’embarcation. Bientôt toute terre fut perdue de vue, tout point de repère disparut, et, sans le sillage écumeux du radeau, j’aurais pu croire qu’il demeurait dans une parfaite immobilité.
Vers midi, des algues immenses vinrent onduler à la surface des flots. Je connaissais la puissance végétative de ces plantes, qui rampent à une profondeur de plus de douze mille pieds au fond des mers, se reproduisent sous des pressions de près de quatre cents atmosphères et forment souvent des bancs assez considérables pour entraver la marche des navires ; mais jamais, je crois, algues ne furent plus gigantesques que celles de la mer Lidenbrock.
Notre radeau longea des fucus longs de trois et quatre mille pieds, immenses serpents qui se développaient hors de la portée de la vue ; je m’amusais à suivre du regard leurs rubans infinis, croyant toujours en atteindre l’extrémité, et pendant des heures entières ma patience était trompée, sinon mon étonnement.
Quelle force naturelle pouvait produire de telles plantes, et quel devait être l’aspect de la terre aux premiers siècles de sa formation, quand, sous l’action de la chaleur et de l’humidité, le règne végétal se développait seul à sa surface !
Le soir arriva, et, ainsi que je l’avais remarqué la veille, l’état lumineux de l’air ne subit aucune diminution. C’était un phénomène constant sur la durée duquel on pouvait compter.
Après le souper, je m’étendis au pied du mât, et je ne tardai pas à m’endormir au milieu d’indolentes rêveries.
Hans, immobile au gouvernail, laissait courir le radeau, qui, d’ailleurs, poussé vent arrière, ne demandait même pas à être dirigé.
Depuis notre départ de Port-Graüben, le professeur Lidenbrock m’avait chargé de tenir le « journal du bord », de noter les moindres observations, de consigner les phénomènes intéressants, la direction du vent, la vitesse acquise, le chemin parcouru, en un mot, tous les incidents de cette étrange navigation.
Je me bornerai donc à reproduire ici ces notes quotidiennes, écrites pour ainsi dire sous la dictée des événements, afin de donner un récit plus exact de notre traversée.
Vendredi 14 août. — Brise égale du N.-O. Le radeau marche avec rapidité et en ligne droite. La côte reste à trente lieues sous le vent. Rien à l’horizon. L’intensité de la lumière ne varie pas. Beau temps, c’est-à-dire que les nuages sont fort élevés, peu épais et baignés dans une atmosphère blanche, comme serait de l’argent en fusion.
Thermomètre : + 32° centigr.
À midi, Hans prépare un hameçon à l’extrémité d’une corde. Il l’amorce avec un petit morceau de viande et le jette à la mer. Pendant deux heures il ne prend rien. Ces eaux sont donc inhabitées ? Non. Une secousse se produit. Hans tire sa ligne et ramène un poisson qui se débat vigoureusement.
« Un poisson ! s’écrie mon oncle.
— C’est un esturgeon ! m’écriai-je à mon tour, un esturgeon de petite taille ! »
Le professeur regarde attentivement l’animal et ne partage pas mon opinion. Ce poisson a la tête plate, arrondie et la partie antérieure du corps couverte de plaques osseuses ; sa bouche est privée de dents ; des nageoires pectorales assez développées sont ajustées à son corps dépourvu de queue. Cet animal appartient bien à un ordre où les naturalistes ont classé l’esturgeon, mais il en diffère par des côtés assez essentiels.
Mon oncle ne s’y trompe pas, car, après un assez court examen, il dit :
« Ce poisson appartient à une famille éteinte depuis des siècles et dont on retrouve seulement les traces fossiles dans le terrain dévonien.
— Comment ! dis-je, nous aurions pu prendre vivant un de ces habitants des mers primitives ?
— Oui, répond le professeur en continuant ses observations, et tu vois que ces poissons fossiles n’ont aucune identité avec les espèces actuelles. Or, tenir un de ces êtres vivant c’est un véritable bonheur de naturaliste.
— Mais à quelle famille appartient-il ?
— À l’ordre des Ganoïdes, famille des Céphalaspides, genre…
— Eh bien ?
— Genre des Pterychtis, j’en jurerais ! Mais celui-ci offre une particularité qui, dit-on, se rencontre chez les poissons des eaux souterraines.
— Laquelle ?
— Il est aveugle !
— Aveugle !
— Non seulement aveugle, mais l’organe de la vue lui manque absolument. »
Je regarde. Rien n’est plus vrai. Mais ce peut être un cas particulier. La ligne est donc amorcée de nouveau et rejetée à la mer. Cet océan, à coup sûr, est fort poissonneux, car, en deux heures, nous prenons une grande quantité de Pterychtis, ainsi que des poissons appartenant à une famille également éteinte, les Dipterides, mais dont mon oncle ne peut reconnaître le genre. Tous sont dépourvus de l’organe de la vue. Cette pêche inespérée renouvelle avantageusement nos provisions.
Ainsi donc, cela paraît constant, cette mer ne renferme que des espèces fossiles, dans lesquelles les poissons comme les reptiles sont d’autant plus parfaits que leur création est plus ancienne.
Peut-être rencontrerons-nous quelques-uns de ces sauriens que la science a su refaire avec un bout d’ossement ou de cartilage ?
Je prends la lunette et j’examine la mer. Elle est déserte. Sans doute nous sommes encore trop rapprochés des côtes.
Je regarde dans les airs. Pourquoi quelques-uns de ces oiseaux reconstruits par l’immortel Cuvier ne battraient-ils pas de leurs ailes ces lourdes couches atmosphériques ? Les poissons leur fourniraient une suffisante nourriture. J’observe l’espace, mais les airs sont inhabités comme les rivages.
Cependant mon imagination m’emporte dans les merveilleuses hypothèses de la paléontologie. Je rêve tout éveillé. Je crois voir à la surface des eaux ces énormes Chersites, ces tortues antédiluviennes, semblables à des îlots flottants. Sur les grèves assombries passent les grands mammifères des premiers jours, le Leptotherium, trouvé dans les cavernes du Brésil, le Mericotherium, venu des régions glacées de la Sibérie. Plus loin, le pachyderme Lophiodon, ce tapir gigantesque, se cache derrière les rocs, prêt à disputer sa proie à l’Anoplotherium, animal étrange, qui tient du rhinocéros, du cheval, de l’hippopotame et du chameau, comme si le Créateur, trop pressé aux premières heures du monde, eût réuni plusieurs animaux en un seul. Le Mastodonte géant fait tournoyer sa trompe et broie sous ses défenses les rochers du rivage, tandis que le Megatherium, arc-bouté sur ses énormes pattes, fouille la terre en éveillant par ses rugissements l’écho des granits sonores. Plus haut, le Protopithèque, le premier singe apparu à la surface du globe, gravit les cimes ardues. Plus haut encore, le Ptérodactyle, à la main ailée, glisse comme une large chauve-souris sur l’air comprimé. Enfin, dans les dernières couches, des oiseaux immenses, plus puissants que le casoar, plus grands que l’autruche, déploient leurs vastes ailes et vont donner de la tête contre la paroi de la voûte granitique.
Tout ce monde fossile renaît dans mon imagination. Je me reporte aux époques bibliques de la création, bien avant la naissance de l’homme, lorsque la terre incomplète ne pouvait lui suffire encore. Mon rêve alors devance l’apparition des êtres animés. Les mammifères disparaissent, puis les oiseaux, puis les reptiles de l’époque secondaire, et enfin les poissons, les crustacés, les mollusques, les articulés. Les zoophytes de la période de transition retournent au néant à leur tour. Toute la vie de la terre se résume en moi, et mon cœur est seul à battre dans ce monde dépeuplé. Il n’y a plus de saisons ; il n’y a plus de climats ; la chaleur propre du globe s’accroît sans cesse et neutralise celle de l’astre radieux. La végétation s’exagère. Je passe comme une ombre au milieu des fougères arborescentes, foulant de mon pas incertain les marnes irisées et les grès bigarrés du sol ; je m’appuie au tronc des conifères immenses ; je me couche à l’ombre des Sphenophylles, des Asterophylles et des Lycopodes hauts de cent pieds.
Les siècles s’écoulent comme des jours ! Je remonte la série des transformations terrestres. Les plantes disparaissent ; les roches granitiques perdent leur dureté ; l’état liquide va remplacer l’état solide sous l’action d’une chaleur plus intense ; les eaux courent à la surface du globe ; elles bouillonnent, elles se volatilisent ; les vapeurs enveloppent la terre, qui peu à peu ne forme plus qu’une masse gazeuse, portée au rouge blanc, grosse comme le soleil et brillante comme lui !
Au centre de cette nébuleuse, quatorze cent mille fois plus considérable que ce globe qu’elle va former un jour, je suis entraîné dans les espaces planétaires ! Mon corps se subtilise, se sublime à son tour et se mélange comme un atome impondérable à ces immenses vapeurs qui tracent dans l’infini leur orbite enflammée !
Quel rêve ! Où m’emporte-t-il ? Ma main fiévreuse en jette sur le papier les étranges détails ! J’ai tout oublié, et le professeur, et le guide, et le radeau ! Une hallucination s’est emparée de mon esprit…
« Qu’as-tu ? » dit mon oncle.
Mes yeux tout ouverts se fixent sur lui sans le voir.
« Prends garde, Axel, tu vas tomber à la mer ! »
En même temps, je me sens saisir vigoureusement par la main de Hans. Sans lui, sous l’empire de mon rêve, je me précipitais dans les flots.
« Est-ce qu’il devient fou ? s’écrie le professeur.
— Qu’y a-t-il ? dis-je enfin, revenant à moi.
— Es-tu malade ?
— Non, j’ai eu un moment d’hallucination, mais il est passé. Tout va bien, d’ailleurs ?
— Oui ! bonne brise, belle mer ! nous filons rapidement, et si mon estime ne m’a pas trompé, nous ne pouvons tarder à atterrir. »
À ces paroles, je me lève, je consulte l’horizon ; mais la ligne d’eau se confond toujours avec la ligne des nuages.
Voyage au centre de la Terre, Jules Verne, ed. J. Hetzel et Cie, .
Capítulo 32
El 13 de agosto nos levantamos muy de mañana. Tratábamos de inaugurar un nuevo género de locomoción rápida y poco fatigosa.
Un mástil hecho con dos palos jimelgados, una verga formada por una tercera percha y una vela improvisada con nuestras mantas, componían el aparejo de nuestra balsa. Las cuerdas no escaseaban, y el conjunto ofrecía bastante solidez.
A las seis, dio el profesor la señal de embarcar. Los víveres, los equipajes, los instrumentos, las arenas y una gran cantidad de agua dulce habían sido de antemano acomodados encima de la balsa. Largué la amarra que nos sujetaba a la orilla, orientamos la vela y nos alejamos con rapidez.
En el momento de salir del pequeño puerto, mi tío, que asignaba una gran importancia a la nomenclatura geográfica, quiso darle mi nombre.
—A fe mía —dije yo—, que tengo otro mejor que proponer a usted.
—¿Cuál?
—El nombre de Graüben: Puerto–Graüben; creo que es bastante sonoro.
—Pues vaya por Puerto–Graüben.
Y he aquí de qué manera hubo de vincularse a nuestra feliz expedición el nombre de mi amada curlandesa.
La brisa soplaba del Nordeste, lo cual nos permitió navegar viento en popa a una gran velocidad. Aquellas capas tan densas de la atmósfera poseían una considerable fuerza impulsiva, y obraban sobre la vela como un potente ventilador.
Al cabo de una hora, pudo mi tío darse cuenta de la velocidad que llevábamos.
—Si seguimos caminando de este modo —dijo—, avanzaremos lo menos treinta leguas cada veinticuatro horas, y no tardaremos en ver la orilla opuesta.
Sin responder, fui a sentarme en la parte delantera de la balsa. Ya la costa septentrional se esfumaba en el horizonte; los dos brazos del golfo se abrían ampliamente como para facilitar nuestra salida. Delante de mis ojos se extendía un mar inmenso; grandes nubes paseaban rápidamente sus sombras gigantescas sobre la superficie del agua. Los rayos argentados de la luz eléctrica, reflejados acá y allá por algunas grietas, hacían brotar puntos luminosos sobre los costados de la embarcación.
No tardamos en perder de vista la tierra, desapareciendo así todo punto de referencia; y, a no ser por la estela espumosa que tras sí dejaba la balsa, hubiera podido creer que permanecía en una inmovilidad perfecta.
A eso del mediodía, vimos flotar sobre la superficie del agua algas inmensas. Érame conocido el poder vegetativo de estas plantas, que se arrastran, a una profundidad de más de 12.000 pies, sobre en fondo de los mares, se reproducen bajo una presión de cerca de 400 atmósferas y forman a menudo bancos bastante considerables para detener la marcha de los buques; pero creo que jamás hubo algas tan gigantescas como las del mar de Lidenbrock.
Nuestra balsa pasó al lado de ovas de 3.000 y 4.000 pies de longitud, inmensas serpientes que se prolongaban hasta perderse de vista. Entreteníame en seguir con la mirada sus cintas infinitas, con la esperanza de descubrir su extremidad; mas, después de algunas horas, se cansaba mi impaciencia, aunque no mi admiración.
¿Qué fuerza natural podía producir tales plantas? ¡Qué fantástico aspecto debió presentar la tierra en los primeros siglos de su formación, cuando, bajo la acción del calor y la humedad, el reino vegetal sólo se desarrollaba en su superficie!
Llegó la noche, y, como había observado la víspera la luz no disminuyó. Era un fenómeno constante con cuya duración indefinida se podía contar.
Después de la cena, me tendí al pie del mástil, y no tardé en dormirme, arrullado por mágicos sueños.
Hans, inmóvil, con la caña del timón en la mano, dejaba deslizarse la balsa, que, impelida por el viento en popa cerrada, no necesitaba siquiera ser dirigida.
Desde nuestra salida de Puerto–Graüben, habíame confiado el profesor Lidenbrock la tarea de llevar el Diario de Navegación, anotando en él las menores observaciones, y consignando los fenómenos más interesantes, como la dirección del viento, la velocidad de la marcha, el camino recorrido, en una palabra, todos los incidentes de aquella extraña navegación.
Me limitaré, pues, a reproducir aquí estas notas cotidianas, dictadas, por decirlo así, por los mismos acontecimientos, a fin de que resulte más exacta la narración de nuestra travesía.
Viernes 14 de agosto. Brisa igual de NO. La balsa se desliza en línea recta y a gran velocidad. Queda la costa a 30 leguas a sotavento. Sin novedad en la descubierta de horizontes. La intensidad de la luz no varía. Buen tiempo, es decir, que las nubes son altas, poco espesas y bañadas en una atmósfera blanca que parece de plata fundida.
Termómetro: + 32° centígrados.
A mediodía, prepara Hans un anzuelo en la extremidad de una cuerda, le ceba con un poco de carne y lo echa al mar. Pasan dos horas sin que pique ningún pez. ¿Estarán deshabitadas estas aguas? No. Se siente una sacudida, Hans cobra el aparejo y saca del agua un pez que pugna con vigor por escapar.
—¡Un pez! —Exclama mi tío.
—¡Es un sollo! —Exclamo a mi vez—, ¡un sollo pequeñito!
El profesor examina atentamente al animal y no es de mi misma opinión. Este pez tiene la cabeza chata y redondeada, y la parte anterior del cuerpo cubierto de placas óseas; carece de dientes en la boca, y sus aletas pectorales, bastante desarrolladas, ajústanse a su cuerpo desprovisto de cola. Pertenece indudablemente al orden en que los naturalistas han clasificado al sollo, pero se diferencia de él en detalles bastantes esenciales.
Mi tío no se equivoca, porque, después de un corto examen, dice:
—Este pez pertenece a una familia extinguida hace ya siglos, de la cual se encuentran restos fósiles de los terrenos devonianos.
—¡Cómo! —digo yo—. ¿Habremos cogido vivo uno de esos habitantes de las mares primitivos?
—Sí —responde el profesor, reanudando sus observaciones—, y ya ves que estos peces fósiles no tienen ningún parecido con las especies actuales; de suerte que, el poseer uno de estos seres vivos, es una verdadera dicha para un naturalista.
—Pero, ¿a qué familia pertenece?
—Al orden de los ganoideos, familia de los cefalospidos, género…
—¿Lo dirá usted?
— Género de los pterichthys; sería capaz de jurarlo. Pero éstos ofrecen una particularidad que dicen que es privativa de los peces de las aguas subterráneas.
—¿Cuál?
— Que son ciegos.
—¡Ciegos!
—No solamente ciegos, sino que carecen en absoluto de órgano de la visión.
Miro y veo que es verdad; pero esto puede ser un caso aislado.
Ceba el guía nuevamente el anzuelo y lo echa al agua. En este océano debe abundarla pesca de un modo extraordinario, porque, en dos horas, cogemos una gran cantidad de pterichthys, y de otros peces pertenecientes a otra familia extinguida también, los diptéridos, mas cuyo género no puede determinar mi tío. Todos ellos carecen de órgano de la visión. Esta inesperada pesca renovó ventajosamente nuestras provisiones.
Parece, pues, demostrado que este mar solamente contiene especies fósiles, en las cuales los peces, lo mismo que los reptiles, son tanto más perfectos cuanto más antigua es su creación.
Tal vez encontremos algunos de esos saurios que la ciencia ha sabido rehacer con un fragmento de hueso o de cartílago.
Tomo el anteojo y examino el mar. Está desierto. Sin duda nos encontramos aún demasiado próximas a las costas.
Entonces miro hacia el aire. ¿Por qué no batirían con sus alas estas pesadas capas atmosféricas esas aves reconstruidas por Cuvier? Los peces les proporcionarían un excelente alimento. Examino el espacio, pero los aires están tan deshabitados como las playas.
Mi imaginación, sin embargo, me arrastra a las maravillosas hipótesis de la paleontología. Sueño despierto. Creo ver en la superficie de las aguas esos enormes quersitos, esas tortugas antediluvianas que semejan islotes flotantes. Me parece ver transitar por las sombrías playas a los grandes mamíferos de los primeros días de la creación: el leptoterio, encontrado en las cavernas del Brasil; el mericoterio, venido de las regiones heladas de Siberia. Más allá el paquidermo lofiodón, ese gigantesco tapir que se oculta detrás de las rocas para disputar su presa al anoploterio, animal extraño que participa del rinoceronte, del caballo, del hipopótamo y del camello, como si el Creador, queriendo acabar pronto en los primeros días del mundo, hubiese reunido varios animales en uno solo. El gigantesco mastodonte hace girar su trompa y tritura con sus colmillos las piedras de la orilla, en tanto que el megaterio, sostenido sobre sus enormes patas, escarba la tierra despertando con sus rugidos el eco de los sonoros granitos. Más arriba, el protopiteco, primer simio que hizo su aparición sobre la superficie del globo, se encarama a las más empinadas cumbres. Más alto todavía, el pterodáctilo, de manos aladas, se desliza como un enorme murciélago sobre el aire comprimido. Por último, en las últimas capas, inmensas aves, más potentes que el casoar, más voluminosos que el avestruz, despliegan sus amplias alas y van a dar con la cabeza contra la pared de la bóveda de granito.
Todo este mundo fósil renace en mi imaginación. Me remonto a las épocas bíblicas de la creación, mucho antes del nacimiento del hombre, cuando la tierra incompleta no era aún suficiente para éste. Mi sueño se remonta después aún más allá de la aparición de los seres animados. Desaparecen las mamíferos, después los pájaros, más tarde los reptiles de la época secundaria, y, por fin, los peces, los crustáceos, los moluscos y los articulados. Los zoófitos del período de transición se aniquilan a su vez. Toda la vida de la tierra queda resumida en mí, y mi corazón es el único que late en este mundo despoblado. Deja de haber estaciones, desaparecen los climas; el calor propio del globo aumenta sin cesar y neutraliza el del sol. La vegetación se exagera; paso como una sombra en medio de los helechos arborescentes, hollando con mis pasos inciertos las irisadas arcillas y los abigarrados asperones del suelo; me apoyo en los troncos de las inmensas coníferas; me acuesto a la sombra de las esfenofilos, de los asterofilos y de los licopodios que miden cien pies de altura.
Los siglos transcurren como días; me remonto a la serie de las transformaciones terrestres; las plantas desaparecen; las rocas graníticas pierden su dureza: el estado líquido va a reemplazar al sólido bajo la acción de un calor más intenso; las aguas corren por la superficie del globo; hierven y se volatilizan; los vapores envuelven la tierra, que lentamente se reduce a una masa gaseosa, a la temperatura del rojo blanco, de un volumen igual al del sol y con brillo igual al suyo.
En el centro de esta nebulosa, un millón cuatrocientas mil veces más voluminosa que el globo que ha de formar un día soy arrastrado por los espacios interplanetarios; el cuerpo se sutiliza, se sublima a su vez, y se mezcla como un átomo imponderable a estos inmensos vapores que trazan en el infinito su órbita inflada.
—¡Qué sueño! ¿Adónde me lleva? Mi mano febril vierte sobre el papel sus extraños pormenores. Lo he olvidado todo: ¡el profesor, el guía, la balsa…! Una alucinación base apoderada de mi espíritu…
— Qué tienes? —me pregunta mi tío.
Mis ojos desencajados se fijan sobre él, sin verlo.
—¡Ten cuidado, Axel, que te vas a caer al mar!
Al mismo tiempo, me siento vigorosamente tomado por la mano de Hans. A no ser por este auxilio, me habría precipitado en el mar bajo el imperio de mi sueño.
—Pero, ¿es que se ha vuelto loco? —pregunta el profesor.
—¿Qué ocurre? —exclamó volviendo a mí.
—¿Estás enfermo?
—No: he tenido un momento de alucinación, pero ya se me ha pasado. ¿No hay novedad ninguna?
—No. La brisa es favorable y el mar está como un plato. Marchamos a una velocidad considerable, y, si mis cálculos no me engañan, no tardaremos mucho en llegar a la orilla opuesta…
Al oír estas palabras, me levanto y examino el horizonte; pero la línea del agua se sigue confundiendo con la que forman las nubes.
Viaje al centro de la Tierra (1864), J. Verne
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